Sui giornali di oggi si fa un gran parlare della spettacolarizzazione del delitto di Sarah Scazzi, e dei crimini precedenti, vedi i casi di Cogne o di Chiara Poggi. Ci si chiede se sia giusto oppure no, mandare in diretta (o in differita) il dolore delle persone coinvolte. Secondo me il problema è un altro: fatto salvo il diritto di cronaca, come dare una notizia e come dibattere, ammesso che abbia senso dibattere un omicidio, o quantomeno parlarne per giorni, se non per settimane.
Vorrei però lasciare da parte per un attimo i mass media e concentrarmi sui fruitori dello stesso, ossia le persone comuni. In noi c’è una certa dose di morboso voyeurismo, la morte altrui, della persona con cui non abbiamo alcun legame, ci attrae, certamente perché ci costruisce una barriera che, può sembrare paradossale, tiene la morte lontana da noi (per la serie mano male che è successo a lui e non a me). Ovviamente la paura della morte di per sé non basta a giustificare in toto il macabro voyeurismo, ma c’è anche il caso di chi soddisfa i suoi istinti di morte, celati nella parte più oscura della psiche umana, attraverso la cronaca nera, vivendoli attraverso di essa.
Questo per dire che, se c’è una grandissima parte degli spettatori, la maggioranza, che s’identifica con la vittima, c’è anche chi s’identifica, consciamente o inconsciamente, con il carnefice. Per rafforzare la tesi del morboso voyeurismo che in misura maggiore o minore ci colpisce, vorrei fare l’esempio di un incidente. Quante persone in autostrada si fermano a guardare un’auto ribaltata e magari una persona in terra priva di vita? Tantissime, altrimenti non si spiegherebbe perché si verificano rallentamenti fino alla paralisi del traffico anche nella corsia opposta a dove è avvenuto l’incidente.
Ora torniamo a come vengono date certe notizie di cronaca e come sono gestite nei giorni successivi. Che cosa hanno in comune, dal punto di vista mediatico i casi di Cogne/Franzoni, Chiara Poggi, Meredith Kercher, Sarah Scazzi e altri che ora sicuramente dimentico? Che cosa differenzia questi omicidi da un morto di Camorra o da un incidente sul lavoro dal punto di vista della cronaca? La struttura del thriller, la cronaca di un evento drammatico viene scandita, viene ritmata come se si trattasse di un libro o di un film thriller.
Ci sono tutti gli ingredienti, la vittima, i sospettati, i punti oscuri, la ricerca del movente, le indagini su più fronti, chi era la vittima, si scava nel suo passato e così via. Così ci appassioniamo a un fatto di cronaca come se fosse un libro, come se fosse finzione e su questo, le trasmissioni televisive ci marciano, ci costruiscono su trasmissioni e trasmissioni. Invitano psicologi, criminologi, magistrati, avvocati in cerca di notorietà (si è attaccato tanto la trasmissione di “Chi l’ha visto”, ma in fondo loro si trovavano lì e per caso la confessione dell’assassino è avvenuta mentre era in onda la diretta. Andrebbe messo sotto accusa invece chi ha dato la notizia prima ai giornalisti in loco e poi ai congiunti), ricordate i famosi plastici di Porta a Porta per ricostruire i delitti, la bicicletta in studio (caso Poggi-Stasi)? Una cosa del genere, non è forse trasformare la realtà, un vero omicidio, in un thriller che appassiona gli spettatori? D’altro canto lo spettatore da un feedback in termini di share, e uno share alto vuol dire attirare inserzionisti (le pubblicità durante le trasmissioni in parole povere), quindi l’approfondimento sul fatto di cronaca nera è plasmato e adattato alle esigenze televisive con un piglio che definirei “scientifico”.
Tutto è simulato negli studi televisivi, da com’è avvenuto il delitto fino addirittura al processo con tanto di colpevolisti e innocentisti che ricoprono rispettivamente il ruolo della difesa e della pubblica accusa (ricordate i seri dubbi al limite della difesa avanzati da Belpietro sulla colpevolezza di Annamaria Franzoni?). In tutto questo il dolore vero, quello non simulato dei parenti delle vittime passa in secondo piano a meno che in un dato frangente narrativo non servano delle scene di lacrime per dare maggior drammaticità al tutto. Ma in tutto questo, noi stiamo lì a guardare, non cambiamo canale e questo ci rende complici di chi fa la trasmissione per le ragioni sopracitate e così il dolore dallo sgomento generale iniziale, diventa spettacolo, intrattenimento.
Vincenzo Borriello
(riportare il link in caso di riproduzione)
L’uomo che amava dipingere (Vincenzo Borriello – Casa editrice Aurea) Yassir,un giovane pittore iraniano, è arrestato per aver dipinto un quadro raffigurante una donna nuda. L’accusa è di aver prodotto materiale pornografico, reato per cui in Iran è prevista la pena di morte. L’uomo in prigione conoscerà Omar, detenuto perché omosessuale, fra i due nascerà un’ amicizia molto forte che porterà a dei risvolti inaspettati.
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